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“Il bosco magico. Alla ricerca della musica e della cultura tradizionale del bolognese”

Il video qui : https://youtu.be/7Nm9FVi0Xfk

Brillano gli occhi mentre con sussiego mi spiega l’uso della doppietta quando con la sua Cinquecento scendeva dai colli del bolognese. Stefano Cammelli, autore del libro “Il bosco magico. Alla ricerca della musica e della cultura tradizionale del bolognese” (Pendragon, 2023), spiega la scelta editoriale di riportare in quarta di copertina la Monferrina, il primo spartito di un’ottantina di trascrizioni (a cura di Nicola Baroni), tratte dalla sua precedente opera, ormai introvabile “Musiche da ballo, balli da festa: musiche, balli e suonatori della montagna bolognese” (Alfa, 1983). 

«L’unico nostro mondo è quello dei musicisti che in Emilia Romagna sono tantissimi… per loro diventerà una specie di bibbia… il sottotitolo, se non fosse stato già usato da Ernesto de Martino doveva essere “Rito e magia nella montagna bolognese”».

In copertina campeggia una foto risalente agli anni Trenta dei suonatori dell’Acquachelda: a sinistra Amedeo, in doppio petto e violino, due violinisti dai bianchi baffi stile Ottocento, un chitarrista dal ciuffo ribelle, un contrabbasso. «Era la formazione classica, il quartetto barocco a cui si è aggiunta la chitarra in tempi recentissimi». E’ una delle pochissime foto che ho trovato, è una ricerca che documenta una miseria infinita. Chiedere a queste persone di avere una foto di loro che suonavano non è come oggi che siamo inflazionati.

Una mappa permette di seguire l’itinerario nelle valli del Reno, del Setta, del Savena, dell’Idice. L’autore è innanzitutto uno storico, allievo di

Franco della Peruta di Milano, Lucio Gambi, Carlo Ginzburg, Claudio Giovannini. Il tema era molto dibattuto negli anni Settanta, in cosa consiste la forza del mondo popolare, cosa rende possibile al Vietnam resistere così tanto all’aggressione americana.

«Il mio desiderio era proprio quello di indagare il carattere della tradizione popolare nell’Appennino… dovevo scegliere una categoria di persone che fossero ancora esistenti, facilmente riconoscibili e che fossero di cultura intravalle, non solamente di quel paese ma di diversi paesi». I suonatori avevano queste caratteristiche. «Mi fu sufficiente entrare nell’unico negozio di Sasso Marconi che serviva tutta la valle. Nel giro di due giorni avevo il nome di ottanta, novanta suonatori».

Nel libro accenna così all’esperienza del coro di San Giovanni in Persiceto: “canto, mi unisco al gruppo perché come singolo sono niente, sono destinato a essere schiacciato dagli agrari, dai padroni, dai politici. Ma come gruppo la mia forza è inarrestabile”. Lamenta uno schock tremendo avvenuto nell’Italia Settentrionale, l’affermazione del canto monodico meridionale che già si afferma dalla Toscana in giù. «Oggi le persone che cantano musica popolare non sanno più cantare in gruppo. Se tu vai a fargli un accompagnamento di terze più basso o una terza superiore, si mettono la mano davanti all’orecchio per cercare di non dimenticare la propria voce. La grandezza di quel modo di cantare, di cui in Piemonte abbiamo esempi straordinari, sta proprio nel perdersi, nel senso di perdita del senso di sé. Nel momento in cui tu canti con altre persone ti rendi conto che la tua voce è bella come il sole, tu sei orgoglioso di come canti ma è il coro, il gruppo che conta. E’ la squadra, l’essere insieme, il condividere». 

Danze notturne intorno agli alberi accompagnate dalla musica di violini e la quercia che ricorda melodie possono aprire alla spiegazione del titolo “Il bosco magico”. Nei boschi rimangono presenze misteriose. «Cosa avveniva nel bosco? Nel mondo contadino, tradizionale il bosco era la fine della razionalità, il luogo dove tutto quello che è cultura, tutto quello che è plasmato formato dall’uomo si ferma e diventa uno spazio mai raccontato. Il bosco finisce con essere la cornice all’interno della quale si raccoglie una serie di usanze, di riti, di tradizioni che potevano avere diverse età, epoche. Il bosco diventa magico così come nella vita di tutti i giorni, la realtà non è magica per niente e risponde a una razionalità che molti soffrono, spietata nei suoi tempi, nei suoi ritmi. Il bosco non ha orologio». 

L’autore ripara di tasca sua il violino di Melchiade Benni: «non credo che esistesse allora in tutta l’Italia settentrionale un violinista di questa abilità». Dopo la cesura della guerra «l’aver trovato un violinista che aveva voglia di ricominciare a suonare» era importante. E’ divenuto l’icona della musica popolare dell’Appennino. Interpreta positivamente il contributo della chiesa

«La Chiesa interviene con un’intelligenza straordinaria attraverso san Leonardo di Porto Maurizio, aveva intuito a fine del Seicento quello che poi sarebbe diventata pratica dell’azione politica di Mao nelle campagne» (l’autore si è dedicato per trent’anni allo studio della rivoluzione cinese) «Nel momento in cui vuole imporre la sua visione della fede, della carità, della chiesa, dell’ultra mondo è inevitabilmente costretto a misurarsi con quello che pensano gli altri. Quindi colui che censura finisce con l’essere il primo che conosce, grazie a queste missioni abbiamo documenti straordinari sopra la religiosità popolare dell’Appennino». 

Icastica la descrizione di Roberto Leydi, «Una garibaldina barba grigia da cui emergeva una bocca abbarbicata al toscano».

«Lui voleva documentare la cultura popolare per come si manifestava ed è stata una delle poche persone ad avere piena consapevolezza che quello che non si raccoglieva in quel momento non sarebbe stato mai più raccolto. Non un secondo da perdere, tutto quello che non è raccolto oggi non lo sarà mai più».

Dal risvolto di copertina, “l’interesse per il mondo contadino e la continuità della tradizione” ti ha condotto ad occuparti per trent’anni di rivoluzione cinese e rapporto tra masse contadine e direzione politica

L’anno dopo l’autore pubblica uno studio sulla rivolta dei moti del macinato. «La prima cosa che mi stupì in questa rivolta era che le tre zone emergenti erano le valli di Cuneo, le valli friulane e il bolognese. Dovetti scrivere a tutte le biblioteche del Friuli e del Piemonte. Mi mandarono i microfilm dei giornali che bisognava guardare con un visore particolare. Fu un lavoro particolarmente complesso ma mi resi conto che tutte le rivolte si erano svolte nell’identico modo. Com’è possibile in tre zone che non hanno un rapporto diretto? La grande continuità era quella del mondo contadino. C’è una letteratura che arriva agli studiosi delle grandi insorgenze contadine che sono soprattutto peruviane, giapponesi, vietnamite e cinesi. A quel punto ho detto se devo scegliere un campo di studi che sia difficile per davvero e sia un campo su cui quasi nessuno ha scritto, incominciai ad occuparmi di Cina».

 

Piergiacomo Oderda

Montaggio video è a cura di Marco Riva

 

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