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Con il vescovo di Pinerolo mons. Derio Olivero l’arte si trasforma in messaggio cristiano

LE FOTO

Di Piergiacomo Oderda

Mons. Olivero armeggia tra proiettore e pc, impensierito per la folla assiepata in ogni angolo della chiesa del seminario. Lascia di stucco, proponendo un testo di Nietzsche (da “Il crepuscolo degli dei”) a fondamento di una spiritualità capace di sostare un’ora di fronte ad una singola opera d’arte: “Imparare a vedere, abituare l’occhio alla pacatezza, alla pazienza, al lasciar-venire-a sé”. «Stare al mondo vuol dire lasciar-venire-a te eventi, tramonti, fiori». Sul maxi schermo appare il Cenacolo di Leonardo da Vinci con tanto di spettatori che tentano con lo smartphone di carpire il capolavoro continuamente ritoccato per quattro anni dall’artista ormai quarantenne nella chiesa di Santa Maria delle Grazie (1493/7). I cronisti dell’epoca raccontavano che si dimenticasse di mangiare tanta era la foga nel pennellare, oppure che rimanesse in contemplazione delle sacre figure per ore. Il vescovo riflette sul cibo, più volte annuncia che sarà un tema affrontato in diocesi nel prossimo anno pastorale. A settembre, in occasione della fiera dell’artigianato, commenterà due “Cene in Emmaus” di Caravaggio (1601, National Gallery di Londra; 1606, Brera, Milano). Per ottobre ha invitato cinque professori che approfondiranno il significato del cibo, di stare a tavola, dei riti.

«La vita è un cammino», tema delle due precedenti conversazioni su due opere di Caravaggio (“La Madonna dei Pellegrini”, 1604, Roma, S. Agostino e “La morte della vergine, 1604, Louvre, Parigi). «Per camminare, occorre sedersi e mangiare, altrimenti non vai da nessuna parte». Non si tratta solo del piacere di un’insalata dell’orto con un uovo cotto a puntino sul desco serale del vescovo, anzi è proprio lì che si sperimentano i doni della madre terra. «Lasciar-venire-a te, gustare, ringraziare. Mangiare per imparare a non sentirsi padrone. Mangiare è il posto dove si fa la verità di te». Se marito e moglie litigano, mangiare a cena «non ti passa più». Si pensi al lutto in famiglia, ai primi pasti con quella sedia vuota. «Mangiare è anche ritrovare un senso, un atto salvifico, i cristiani celebrano i riti mangiando». Due pennellate su Leonardo, «grandissimo ingegnere, non smetteva mai di cercare in tutti i campi». Per lui anche la pittura era scienza, «costruita con la matematica e la geometria e basata sull’esperienza; passava ore e ore a studiare anatomia per essere preciso». I disegni per studiare la proporzione del corpo o le espressioni particolari dei volti attestano che l’”Ultima Cena” è il momento finale di un lavoro di ricerca. Mons. Olivero ci chiede se guardiamo con la stessa attenzione ad una torta, ad una pagnotta preparata per noi. «La terra ha lavorato per fare il grano da fine ottobre a inizio luglio!». A Santa Maria delle Grazie, convento dei domenicani, Leonardo dipinge la parete del refettorio, sembra che quella tavola imbandita sia proprio dentro la stanza come scrisse Goethe rientrando in Germania, “Cristo era a cena dai domenicani a Milano”. «Chi sono i cristiani?», chiede il vescovo, «quelli che vedono Gesù Cristo presente in ogni “qui e ora” dove si vedono loro». La parete “sfondata” rappresenta quella dilatazione dello spazio e del tempo propria del rito. Mons. Olivero sembra fare teatro mimando i movimenti delle braccia dei discepoli raffigurati nel quadro. C’è innegabilmente del movimento rispetto all’analoga scena dipinta dal Castagno quarant’anni prima (1445-50, S. Apollonia, Firenze). «Leonardo sovrappone due scatti fotografici». La prima foto appena Gesù pronunzia le parole: “uno di voi mi tradirà” (Gv 13,21). «Scoppia una bomba. C’è uno spazio enorme tra il primo discepolo sulla sinistra e Gesù. Quando c’è il sospetto il gruppo si disgrega». Gesù è solo, anticipando la scena della croce. I discepoli sono divisi a gruppi di tre. Sulla sinistra di Gesù si stagliano Giuda, Pietro e Giovanni. Giovanni, «fratello minore di Giacomo, ha il viso sereno e le mani giunte». Sembra dire: «chi ha potuto fare così male a Gesù?». Pietro ha il viso teso quasi «come un responsabile d’azienda che viene a sapere che stiamo andando a rotoli». «Facciamo qualcosa!», soggiunge mons. Olivero in dialetto. Pietro e Giovanni così ravvicinati simboleggiano l’incontro tra la chiesa istituzionale e la Chiesa carismatica. Tra queste due colonne compare Giuda che «si tira via dal gruppo, ha la testa più bassa, se ti tiri via dalle relazioni rimpicciolisci. E’ in controluce, ha la faccia buia, scende la notte su di lui». Nella copia del Giampietrino (prima metà del quindicesimo secolo), si nota il particolare che Giuda rovescia il sale, altro simbolo di rottura dell’alleanza. «La Chiesa vera è quella che tiene dentro anche uno così». Sulla destra di Gesù, vediamo Tommaso, Giacomo il maggiore e Filippo. Giacomo, figlio del tuono, impulsivo, allarga le braccia con veemenza, «non sarò io!» ed anche «sono disposto a morire per te! Mangiare insieme significa costruire un’alleanza». Tommaso allunga il dito, «spiegami bene, facciamo un interrogatorio per capire chi sia il colpevole». Filippo porta le mani al petto in segno di accettazione, «dobbiamo farci carico tutti dello stesso problema». All’estrema sinistra del cenacolo compaiono Bartolomeo, Giacomo e Andrea. Questi ha il viso indignato, «come? Uno di noi?»; ha le mani alzate, «non voglio manco sentirlo!». Giacomo il minore, cugino di Gesù, così simile nei capelli e nelle vesti, tocca Pietro sulla spalla, «tu che sei il nostro responsabile, fai qualcosa!». Emerge nella sua interezza la figura di Bartolomeo quasi a dire «io ci sono, ditemi cosa devo fare». All’estrema destra, Matteo, Giuda Taddeo e Simone discutono animatamente mentre Matteo funge da “trait d’union”, «mangiare è l’occasione per rimettere insieme dei pezzi». Il secondo scatto fotografico parte dalle mani di Gesù rivolte verso il bicchiere e la pagnotta, per mettere insieme «un momento tragico con il dono. L’unico modo per vincere il male è buttarsi dentro. Allora tutti i discepoli reagiscono a Gesù che si regala». Il dito di Tommaso pare indicare la grazia che viene dal cielo, Filippo china il capo di fronte al mistero.

Mons. Olivero mostra ancora come le linee del soffitto a cassettoni, degli arazzi, del pavimento insomma la prospettiva abbia come punto di fuga la testa di Gesù. Il Maestro è raffigurato come un triangolo equilatero (tre sono le finestre dipinte e le lunette sovrastanti la pittura nel refettorio). C’è ancora un terzo scatto fotografico, gli arazzi sono dipinti con decorazioni floreali, la risurrezione apre la strada al giardino, al Paradiso. Il cenacolo è dipinto a sei metri circa dal pavimento originario, al primo piano dove c’era il magazzino e dove si mangiava la Pasqua, dunque con riferimento al «cibo che ti mantiene in vita e a Cristo che ci raduna come fratelli». Chiaro allora il senso dell’Ultima Cena, «Io sono pane perché voi viviate, quello che vedrete è una tragedia, il dolore che spezza ma è innanzitutto un atto amoroso».

Piergiacomo Oderda

 

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