I fatti di Caivano dimostrano che chiudere le stalle a buoi scappati non serve
I fatti di Caivano dimostrano che chiudere le stalle a buoi scappati non serve
In questi giorni è al centro di molte discussioni quanto predisposto dall ‘ esecutivo in seguito al grave reato avvenuto nel quartiere di Caivano, alla periferia Nord di Napoli.
Da una parte si sostiene la necessità di un inasprimento delle pene e una concomitante presenza dell’ Esercito per arginare simili fatti criminosi; dall’ altra si sostiene che queste misure draconiane siano sostanzialmente inefficaci, se non sostenute da un intervento a più ampio respiro sul piano sociale e culturale, mirate a“ redimere” queste aree dal degrado endemico, e forse anche epidemico, in cui arrancano da anni.
Certamente la comprensione della genesi di simili reati non deve condurre alla loro giustificazione e quindi all’ impunità. Ben vengano l’ inasprimento delle pene e una sorveglianza serrata e capillare sul territorio: a mali estremi, estremi rimedi.
Dall’ altro canto ha ragioni da vendere chi è fautore della tesi secondo cui la repressione, da sola, non ha mai portato a grandi risultati.
E qui nasce l’impossibilità, secondo noi, di cambiare dal profondo lo status quo: quando i buoi sono scappati, chiudere le porte è inutile.
Intervenire in maniera dura è sicuramente inevitabile – ci mancherebbe -, ma, fatto ciò, come si può pensare di intervenire concretamente per una riabilitazione sociale e culturale di certe aree, per altro ormai sempre più diffuse sul territorio nazionale? Ricordiamoci che anche altri stati, un tempo presi a modello quanto a buona convivenza civile, sono attualmente messi molto male. La Svezia, ad esempio, è il paese con il più elevato numero di stupri in rapporto alla popolazione, mentre la criminalità giovanile, le cosiddette baby gang, sta mettendo sotto scacco intere città, compresa Stoccolma.
“Socializzare” in sociologia ha un significato solo: interiorizzare i valori della società in cui si vive, quindi non presenta alcun riferimento al fare amicizia et cetera. Con socializzare si intende rendere propri i valori, le abitudini, i costumi, le credenze della società nella quale si vive quotidianamente.
Le due agenzie primarie di socializzazione per i sociologi da sempre sono state identificate nella famiglia in prima battuta e nella scuola in seconda.
In una società che, ormai, ha relegato famiglia e scuola ad agenzie di socializzazione marginale, a favore dei media e del mondo del web, pensare di porre in essere azioni efficaci sul piano della socializzazione da parte dello Stato è poco meno di una chimera.
Sul web si trovano contenuti molto nobili e virtuosi, ed è onesto intellettualmente riconoscerlo, ma anche, purtroppo e da moltissimo tempo, contenuti di una aberrazione ineffabile.
E si sa che il male, come insegnò Beaudelaire nella seconda metà dell’ Ottocento, esercita un fascino forte e talvolta persino più intenso del bello e del nobile.
Occorrerebbe ricominciare dal web, ripulendolo da ogni spazzatura etica e culturale che lo pervade, ma gli interessi in gioco non è più possibile ledere, talmente sono ormai radicati nel sistema economico.
Forse, chi può saperlo, sarebbe stato possibile agire con incisività ai primi vagiti del mondo virtuale, quando era già lampante che i contenuti di parte del web stavano tracimando verso l ‘ offerta di messaggi assai poco edificanti, ma il mercato non poteva sentire ragioni né etiche né socioculturali. Esso è il totem, impersonale e senza nome, cui si deve sempre sottostare, anche a costo di andare contro il bene stesso dell’ essere umano.
Il fine ultimo dell’ azione umana non è più l’ uomo, come avrebbe voluto Emmanuel Kant nella sua etica, bensì il mercato.
Siamo forse tacciabili di pessimismo cosmico ? Diceva Sacha Guitry : “ Il pessimista crede di vivere nel peggiore dei mondi possibili; il realista sa che è proprio così “. Forse soffriamo di un lucido realismo.
Ivan Albano