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“La Chirurgia in Piemonte. Storia di una Scienza e di una Regione” il libro di Mario Nano

12/12/2021 13:47

«La “verve” di Bruno Gambarotta è tale che non so se saprò rispondere a tutto quello che chiederà ma ci provo!». Mario Nano presenta nell’aula magna dell’Accademia di Medicina di Torino il suo nuovo libro, “La Chirurgia in Piemonte. Storia di una Scienza e di una Regione” (Ed. Minerva Medica, 2021).

Bruno Gambarotta nota la presenza di «un basso continuo che accompagna questa storia molto attenta e precisa della chirurgia in Piemonte, un basso continuo che ambienta la storia della chirurgia sulla torinesità, sui fatti minuti di Torino». Lo incuriosisce l’evoluzione a partire dalla figura del chirurgo-barbiere che «provvedeva soprattutto ai salassi» sino a divenire «personaggi noti, conosciuti perché sono alla fine gli unici che mettono le mani sul paziente». Racconta di quando stava montando la registrazione per un programma per ragazzi in Rai insieme ad un’assistente che aveva frequentato un anno medicina. Nel corridoio scorgono la figura di Dogliotti. «Qualcuno gli aveva fatto uno scherzo, gli ha telefonato, gli ha detto “Professore, ci sarebbe da fare un’intervista”. E lui non ha chiesto né chi, né come, né dove, si è vestito ed è partito. C’era una sacralità del chirurgo!».

Mario Nano ricorda i tempi in cui il chirurgo è diventato la “prima donna” nell’ospedale. «L’ospedale era il luogo in cui andavano i poveri, in cui si andava a morire. Nessun nobile, nessun ricco si sarebbe fatto curare in ospedale. Poi adagio adagio tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, con le grandi scoperte gli ospedali diventano davvero dei centri di cura. L’alta società decide di andare a farsi curare negli ospedali ma non vuole rinunciare ai privilegi della cameriera, della colazione a letto e vengono creati i reparti pensionanti. I reparti pensionanti sono in combutta con l’idea di creare le case di cura, case di benessere che non sono nient’altro che le cliniche private di oggi. Sorge un conflitto terrificante a suon di carte bollate fra gli ospedali e le case di cura». L’epicentro del conflitto sono i chirurghi perché sono quelli che hanno gli onorari maggiori e che fanno guadagnare di più sia la clinica privata se vanno in clinica, sia l’ospedale se operano nei reparti pensionanti. «Gli ospedali ipertrofizzano i reparti chirurgici, che erano assolutamente non proporzionati alle richieste ma erano i reparti, soprattutto quelli pensionanti, che facevano guadagnare di più». Oggi non è più così, «gli interventi sono estremamente complessi, pensiamo solo ai trapianti, il chirurgo è una delle componenti dell’équipe; il chirurgo è diventato ormai una delle pedine che in molti casi non è neanche la più importante di un gruppo di specialisti che è quello che porta avanti la guarigione del paziente. Dalle stalle alle stelle alla comunità, così potrei definire l’iter del chirurgo a partire dall’anno mille fino al terzo millennio».

Mario Nano racconta le figure dei chirurghi calate nel loro tempo. Come esempio cita Alessandro Riberi, il fondatore dell’Accademia di Medicina di Torino, «il primo in Italia che ha reso obbligatoria l’anestesia per ogni intervento. Rivoluziona il servizio sanitario militare e unisce le facoltà di Medicina e Chirurgia. Era molto bravo ma ha avuto anche fortuna. Un giorno in piazza San Carlo vede un giovane che cade malamente da cavallo. Lo soccorre, lo fa portare al san Giovanni, va personalmente a seguirlo. Era il figlio dell’ambasciatore francese!». Riberi unisce le Facoltà di Medicina e Chirurgia, «unire le due facoltà era un gesto politico rischioso perché molte delle cattedre dell’una erano cattedre anche nell’altra, voleva dire abolire delle cattedre. Il progetto viene messo all’ordine del giorno in Parlamento ma tra un passaggio e l’altro, alla sera viene cancellato. Riberi va a Palazzo Reale, sono le dieci di sera, Carlo Alberto è già andato nei suoi appartamenti, in camera da letto ma lui è in confidenza col re che gli firma un Regio biglietto; alle dieci di sera in camera da letto di Carlo Alberto nasce la facoltà di Medicina e Chirurgia! Se non fosse stato così intimo con Carlo Alberto non sarebbe riuscito ad unificare le due facoltà». Riberi era un chirurgo, non poteva conoscere tutta la medicina, «ha fatto degli sbagli clamorosi, a partire da Carlo Alberto sulla cui diagnosi non si è ancora certi e che lui ha riempito di salassi, a Cavour a cui il suo medico personale, un povero medico di paese ma con tanto buon senso, aveva fatto diagnosi di febbri palustri cioè malaria. Arriva Riberi mandato dal re il quale dice “macché febbri palustri, queste sono febbri cerebrali, salasso!”».  Il prof. Nano racconta di un periodo in cui «a casa Savoia era successo di tutto. Era morta la madre di Vittorio Emanuele, già piuttosto anziana, Maria Luisa d’Austria, muore il fratello, Ferdinando duca di Genova, muore la moglie di Vittorio Emanuele II, muore l’ultimogenito di Vittorio Emanuele» da cui il detto dell’epigrammista Baretta: “Del gran Riberi i meriti - non sia che età cancelli – son scritti indistruttibili - sopra i regali avelli” . Il duca di Genova tossiva e sputava sangue. «Siccome poco tempo prima era morta la madre, Riberi fa diagnosi di melanconia!».

Gambarotta cita «i chirurghi chiamati a intervenire sul campo di battaglia che dovevano inventarsi soluzioni», «La Croce Rossa – osserva Mario Nano - nasce con l’orrore di questi feriti lasciati morire. Il vero iniziatore del concetto di Croce Rossa è un italiano, Ferdinando Palasciano, medico chirurgo a Napoli, a cui è dedicato il Collegium Historicum Chirurgiae che rilascia un premio annuale ai migliori lavori di storia della chirurgia. Proprio grazie alle guerre viene valutata la differenza nell’anestesia fra l’etere e il cloroformio e vengono valutati i vantaggi e gli svantaggi della terapia chirurgica urgente nei grandi feriti di guerra». Andrea Marro «si rende conto dell’importanza dell’intervento immediato a pochi minuti dalla ferita del soldato. Fa spostare sempre più avanti, sempre più vicino alla linea del fuoco le tende del primo soccorso». Scrive un rapporto accettato in Italia senza grandi entusiasmi mentre è «ancora oggi la base di tutti i trattati di chirurgia di guerra americani». Gambarotta ricorda quando da direttore alla fotografia nelle riprese televisive cercava di individuare un assistente più valido di altri per “allevarlo” e costruirsi il successore. Capita così anche in medicina? Mario Nano ricorda che Riberi era stato allievo di Lorenzo Geri, grande clinico chirurgo. Nell’orazione funebre dedicata a Lorenzo Geri, Pacchiotti parla di quando Lorenzo Geri aveva capito che c’era nel suo gruppo «una mente superiore, una mano superiore, quella di Riberi e che lo lasciava fare, gli dava carta bianca». Il tono si fa umoristico ricordando il problema che deve risolvere Amedeo VIII «morto in odore di santità. Una delle piaghe di Torino era la prostituzione, non si sapeva come fermarla. Amedeo VIII decide di rinchiudere la prostituzione in un luogo ben fisso. Compra un discreto edificio, lo fa ristrutturare, lo dà in affitto ad un tenutario e crea la prima casa di tolleranza in Europa. Si rende conto che la prostituzione è fonte di malattia, le prostitute vanno periodicamente visitate. I medici inorridiscono all’idea e chi ci va a visitare le prostitute? I chirurghi, anzi viene addirittura creata una specialità “cerusico visitator di meretrici”». Gambarotta accenna a concorrenti nascosti sotto il letto dei pazienti. E’ il caso di Lorenzo Geri, «gli universitari erano molto bravi in teoria, ma qualche volta il chirurgo ospedaliero era più bravo. Il clinico chirurgo mandava i suoi assistenti di notte a controllare come andassero i malati operati da Lorenzo Geri. Li faceva parlare con i parenti, parlando male di Lorenzo Geri. Era una battaglia università ospedale nel milleottocento, non che adesso sia tanto diverso!».

«Sul piano della notorietà in questo momento che posto ha il chirurgo?» incalza Gambarotta. «Il chirurgo ha un legame particolare con il paziente. Si crea una sorta di cordone ombelicale che lega il paziente con il proprio chirurgo in maniera viscerale». Su questo input interviene il presidente dell’Accademia, Giancarlo Isaia. «Negli ultimi vent’anni c’è stata un’esplosione di ipertensione, diabete, dislipidemia, osteoporosi, insufficienza renale, tutte malattie non risolvibili, ci metti “una pezza”, fai l’insulina, la dialisi. Invece il chirurgo risolve quasi sempre, ti toglie un pezzo di colon, l’appendicite acuta, la colecisti, un tumore». Ricorda un aneddoto relativo al maestro di Mario Nano, il prof. Angelo Emilio Paletto. «C’era una paziente che aveva un Cushing surrenalico e nessuno sapeva se fosse a destra a sinistra, allora non c’era la TAC, non c’erano risonanze, lui mi guarda e mi chiede “lei è fortunato? Ce l’ha una moneta? Facciamo a testa e croce, se viene testa a destra, se viene croce a sinistra!”». Sono stati fortunati in quel caso! Un altro ricordo viene dal decano di quella scuola di chirurgia, il prof. Giuliano Maggi. «In questo momento sono il più vecchio della scuola di Biancalana, Paletto, mi sembra mio dovere dire che Mario Nano tra tutti noi è quello che studiava di più. Ricordo che quando si è laureato ha organizzato una bellissima cena in via Mazzini, un banchetto molto ricco che non ho mai più dimenticato!». La tesi riguardava «un nuovo mezzo diagnostico, assolutamente all’avanguardia che si chiamava ecografia».

Mario Nano si sofferma ancora su Vittorio Amedeo II, «a questa figura è legata una serie di iniziative che hanno reso Torino famosa, dalla Basilica di Superga alla fondazione dell’Università di Torino, 1720, ai primi rudimenti del Museo Egizio, della Biblioteca Nazionale». Aggiunge fra questi meriti la fondazione del primo ospedale specifico per una determinata malattia in Italia. I primi ospedali un po’ specialistici nascono a Genova con il marchese Brignole. In Piemonte nasce l’ospedale specifico dei Pazzarelli, quelli che soffrivano di malattia mentale vengono messi in uno specifico ospedale. Poi nasce un secondo ospedale specifico per le partorienti, il primo ospedale ginecologico.

Infine, narra la storia dei grissini. «Sembra che Vittorio Amedeo II da bambino (probabilmente era celiaco), non sopportasse il pane, la mollica. Allora la madre, la seconda reggente, Maria Giovanna Battista di Nemours, chiama a consiglio i più grandi medici del tempo che consigliano di tenere il bambino a letto al buio. Uno dei ministri suggerisce alla reggente di chiamare un vecchio medico di paese che dice: “Aprite le finestre, fate prendere aria e buttate giù dal letto il ragazzino”. Poi chiama un panificatore di Borgo Dora, “devi prendere l’impasto di una grissia, quanto serve per formare una pagnotta e la devi allungare finché non contenga più mollica.. Prendi il tuo braccio, guarda quanto è lungo, il grissino deve essere lungo così”. Pare che con questo artificio Vittorio Amedeo abbia ricominciato a dare segni di vitalità».

Napoleone si era innamorato dai grissini, aveva rinominato scherzosamente Torino “Grissinopoli” e due volte la settimana una carrozza veniva apposta a Torino a prendere i grissini e a portarli sulla tavola dell’imperatore. Sotto la stele di piazza Savoia eretta per sottolineare l’importanza della legge Siccardi sono stati messi dei prodotti tipici del Piemonte tra cui il vino e una confezione di grissini.

«Credo che il libro possa essere letto in due modi, che ci siano due libri, uno in caratteri normali, la storia della chirurgia, il secondo fatte dalle note, quasi un libro parallelo che parla di Lavazza, di Paissa, dei primi pelati fatti a Borgo Dora, eventi che servono a calare nella realtà quel libro ufficiale che è la storia della chirurgia». Conclude Giancarlo Isaia ringraziando Mario Nano di aver scelto l’aula magna dell’Accademia per la presentazione ufficiale del suo libro. «Chissà quante scoperte e innovazioni sono state descritte in quest’aula! Bizzozzero è venuto qui a spiegare l’elioterapia nella tubercolosi. All’inizio del secolo i medici venivano qui ad aggiornarsi, non c’erano né congressi, né internet». L’Accademia di Medicina con corsi on line, conferenze e premi di ricerca fa il possibile per essere all’altezza dei grandi maestri di cui le immagini sono appese sulle pareti dell’aula magna.

Piergiacomo Oderda

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