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Nel nome di Primo Levi, si è richiamato alla necessità di non dimenticare

25/05/2019 10:40

Domenico Scarpa introduce in sala rossa al Salone del Libro la presentazione del testo di Fabio Levi “Dialoghi”, edito da Einaudi. Scarpa ha citato il messaggio che Mattarella ha inviato al direttore del Salone. Nel nome di Primo Levi, si è richiamato alla necessità di non dimenticare, il disprezzo dei diritti di ogni singola persona è un elemento che può minare la convivenza sociale. L'iniziativa è curata dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi di cui Scarpa è consulente letterario. Ogni anno si sceglie un tema, «il più possibile di apertura, innovativo da studiare nelle opere, nel rapporto con i suoi mondi, gli interlocutori a cui si rivolgeva». “Dialoghi” è «un titolo che riguarda il ruolo che il Centro Studi ha cercato in avere in questi primi dieci anni nei confronti delle opere di Levi, della città di Torino, del pubblico».

Fabio Levi esplicita le motivazioni della scelta, «ci siamo resi conto che il pubblico a cui volevamo rivolgerci non ha limiti: studiosi, studenti, curiosi, chi ha conosciuto Primo Levi e ne ha amato l'opera». La funzione del Centro è individuata nell'idea di “mediazione”, «creare modi e luoghi dove la parola di Primo Levi potesse rivolgersi direttamente ai lettori, favorire la relazione, il dialogo dell'autore con i diversi pubblici». Un esempio è la «condensazione scenica» di “Se questo è un uomo” al Teatro Carignano. Valter Malosti è «una voce ulteriore che favorisce la relazione tra l'autore e il pubblico». Un altro motivo che soggiace al tema “Dialoghi” è il lavoro straordinario compiuto da Primo Levi nelle scuole non solo torinesi ma di tutta Italia. E' iniziato negli anni Sessanta dopo aver visto nella rubrica “Specchio dei tempi” de “La Stampa” una lettera che «chiedeva conferma di quanto accaduto nei lager nazisti», «la lettera che attendevamo», annota P. Levi. Il Centro Studi ha ragionato su quella relazione, «cosa andava a fare nelle scuole, come entrava in relazione». La dimensione dialogica è «uno sforzo continuo di rivolgersi ad un interlocutore ogni volta diverso che attraversa tutta la sua opera».

Scarpa riprende il tema della lettera suscitata dalla visita ad una mostra sulla deportazione allestita nel 1959 a Palazzo Carignano. Una dodicenne, viste le foto dei campi di sterminio, si è chiesta se quelle immagini corrispondessero alla realtà. «Non c'è maniera di dubitare della verità di quello che ha visto», risponde Primo Levi. Questi, appena ritornato a Torino nell'ottobre del 1945, era «talmente oppresso dall'esperienza recente che non riusciva a trasformare i fatti in ricordi». Per Fabio Levi, «Primo Levi sentiva un impulso irrefrenabile a parlare per sgravarsi del peso dell'esperienza. Occorre trovare un interlocutore per arrivare a risultati significativi. Quando scrive il primo libro, si sperimenta nel rapporto con gli altri, studenti, tedeschi. Riuscire a dialogare con gli altri, aiutandoli a dialogare con se stessi è l'obiettivo più ambizioso che lo scrittore si propone. I diversi aspetti dell'animo umano sono il vero oggetto del suo racconto». Fin dall'edizione del 1947 di “Se questo è un uomo”, riprende Scarpa, si creava un «cortocircuito», il titolo «non rimanda alla singola persona ma alla specie. L'uomo che perde la qualifica di uomo è sia la vittima che il carnefice». Moltissimi sono i punti di vista diversi e convergenti che appaiono nella lettura di “Se questo è un uomo”, li si è cercati di restituire nello spettacolo di Malosti. Primo Levi come ex deportato si sentiva “portatore di segreti” del lager. Fabio Levi nota nell'opera “I sommersi e i salvati” una quantità innumerevole di personaggi. La logica del lager impedisce la comunicazione, «si parlano lingue innumerevoli, prevalgono urli, botte, violenza. L'autore immagina la verità di quei personaggi, cosa pensano di sé». Si pensi a «lettori diversi che rivolgono al libro domande sempre diverse a seconda del contesto che stanno vivendo. “I sommersi e i salvati” rappresenta uno strumento straordinario di avanzamento del dialogo a proposito degli innumerevoli problemi che il lager propone». «La lettura di un testo può aprire ad un ragionamento, sviluppare una consapevolezza che si traduce in effetti positivi anche nella relazione con gli altri». Il dialogo che Primo Levi conduceva nelle scuole negli anni Settanta era condizionato da preoccupazioni sulla situazione politica italiana, europea, sul ritorno del fascismo. «Il dialogo parte dall'esperienza del lager ma necessariamente fa riferimento al momento specifico in cui il dialogo avviene».

Scarpa richiama l'edizione scolastica del 1973 di “Se questo è un uomo” in cui P. Levi si rivolge ai giovani con un breve testo che si richiama all'attualità. «La disponibilità al dialogo non è scontata, gratuita, è costosa in termini intellettuali e psicologici». A metà degli anni Sessanta doveva reincontrare un tedesco che dirigeva il laboratorio di chimica dove aveva lavorato negli ultimi due mesi. P. Levi sapeva di non avere prontezza polemica, aveva “l'esprit d'escalier”, proprio di chi non ha la battuta pronta, semmai gli viene in mente quando si trova sulle scale, a dialogo finito. «L'avversario lo sta a sentire come uomo». Fabio Levi aggiunge che «il dialogo è più produttivo con chi è diverso da noi». «Quando P. Levi veniva chiamato a dialogare con qualcuno diceva di sì, compatibilmente con le sue forze». Si interroga sul livello a cui può situarsi il dialogo. «Non può avvenire buttandosi addosso pregiudizi o stereotipi. Attraverso la ragione è possibile confrontare la propria posizione con quella degli altri». Il dialogo esercita «qualche forma di cambiamento nel proprio punto di vista».  «Nel dialogo con gli studenti, P. Levi era attento che la comunicazione non si bloccasse a causa dell'eccessiva drammaticità dell'oggetto di cui si stava parlando», «rassicurare i propri interlocutori è utile al prosieguo della discussione».

Fabio Levi nota come nella discussione fra soggetti diversi non necessariamente si ricopre un ruolo fisso. Nelle situazioni in cui P. Levi si sente a suo agio, per esempio quando un quattordicenne, Marco Pennacini, va a casa sua per intervistarlo, l'intervistato diventa intervistatore. «A sua volta, fa domande all'interlocutore, ribalta la situazione, rompe con la logica dei ruoli precostituiti, favorisce uno scambio in cui i due soggetti riescono a dirsi delle cose».

 

Piergiacomo Oderda

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