Beppe Mariano, vincitore con “Il seme di un pensiero”. Il bello della poesia
«E’ un Arimondi da primo piano/cui hanno imbrattato di rosso la faccia». L’Arimondi in questione è circondato dai banconi affollati del mercato di Savigliano. Poco distante, incontriamo l’autore dei versi appena citati, Beppe Mariano, vincitore con “Il seme di un pensiero” (2013), appena ristampato per i tipi di Nino Aragno Editore, dei premi “Sulle orme di Ada Negri” (Lodi), “Guido Gozzano” (Terzo, AL) e “Rodocanachi” (Arenzano, GE).
«Siamo nel cuore di un paese, il cuore di un Piemonte in cui come in nessuna regione d’Italia si respira il senso della storia, della grandezza e del declino» (dalla “Presentazione” di Giuseppe Conte). Quale il suo rapporto con Savigliano?
«Purtroppo oggi non è un rapporto positivo; lo è stato, le poesie datano dal tempo degli anni settanta fino agli anni ottanta. Risultati poetici possono riguardare una piazza, una chiesa, un ponte, lo stesso Monviso che si affaccia prepotente su via Saluzzo; è una via in leggera ascesa, per cui sembra di salire verso la montagna. Oggi purtroppo sono carcerato nella mia stessa città, se posso usare un’espressione forte. Ho avuto un forte attrito con il Comune, si è verificata sempre di più nei miei confronti una disattenzione, un’ostilità più o meno dichiarata. A Cuneo, ho ricevuto per anni attenzioni esegetiche da parte di professori dei licei, in particolare da Maria Lucia Villani e da Carlo Luigi Torchio del liceo Classico; da Savigliano, tranne una nota del prof. Renato Scavino, nulla. E nulla dal locale liceo. Del resto la sola attenzione istituzionale l'ho ricevuta nel 1988 dall'allora Assessore alla Cultura del comune. Poi, solo una lenta ma totale cancellazione, oggi completamente realizzata. Non è un caso che non riceva più, da quasi dieci anni, proposte e inviti all’attività culturale del Comune. Mi trattano come se fossi defunto e prontamente dimenticato».
«Sono state cineriprese le due piazze/principali del mio paese» (“Verde celeste sclin. Asincronia tra suono e immagine”). Esaminando le versioni precedenti, pubblicate in “Ascolto dell’erba” (1990) e “Dell’anima assediata” (2004), notiamo l’eliminazione degli inserti in piemontese. Sembra che il lavorio sulle poesie nelle differenti versioni esprima i maggiori cambiamenti nei versi in piemontese. Cosa rappresenta per lei scrivere in dialetto?
«Il piemontese è una lingua vera e propria. A quarant’anni in genere si studia l’inglese, io ho sentito la necessità di studiare il piemontese per saperlo scrivere. Me ne avvalgo in modo originale, come ha detto Sebastiano Vassalli. Qualche volta uso intercalare la strofe in italiano con una strofe in piemontese, il più delle volte una strofe brevissima. I nostri vecchi parlavano quasi soltanto il dialetto; attingo a queste espressioni che, ripetute più e più volte, diventavano delle forme proverbiali di saggezza. Le riuso a mio modo, le ricompongo con altri versi, il piemontese è la lingua della casa, del cuore, delle origini. Anche la poesia è sentimento, parola oggi equivoca, intendo il “forte sentire” come si diceva al tempo del Foscolo. La poesia deve corrispondere ad un forte sentire, poi certo c’è la sapienza della costruzione poetica, la metrica, l’uso della rima, talvolta presente in modo meno dichiarato, mistificato nelle assonanze, consonanze, allitterazioni. La rima aiuta a dare ritmo alla poesia e non può esserci poesia senza ritmo.
In “Verde celeste sclin”, lo sguardo si sofferma sull’altalenarsi delle case di diversa altezza e sulla caduta delle ideologie, soprattutto del Sessantotto al quale io avevo partecipato. Ripercorre tutta la stagione che si credeva rivoluzionaria. E’ triste per un giovane vivere in un periodo in cui non si voglia cambiare il mondo, diventerà vecchio molto prima o forse è già vecchio senza saperlo. Gianni D’Elia la ritiene una poesia politica di grande forza.»
Le poesie “Voce e sommersa” e “Chiedevamo avvenire” diventano due parti de “La Novella”; tra “Ascolto dell’erba” e la sezione “Scenari” ne “Il seme di un pensiero” si nota la variazione nell’ordine delle composizioni. Come lavora il poeta?
«Il laboratorio è importante ma non deve sopraffare l’ispirazione, il “motus” primo, l’idea dalla quale conseguono i primi versi, sui quali certo bisogna lavorare per raggiungere un equilibrio, perché la poesia risulti apparentemente semplice. Come diceva Fenoglio, la pagina esce spensierata da faticose riscritture e così avviene anche per la poesia. Mi è capitato di perdere la poesia riscrivendola, modificandola, alla fine mi sono accorto di aver smarrito quello che mi aveva indotto a scrivere. Bisogna avere il dono dell’autocritica che si raggiunge leggendo i classici, studiandoli, la si acquisisce con gli anni. L’autocritica ti fa dire che la poesia a questo punto va bene, anche se si è sempre insoddisfatti, io modifico anche molto. La poesia è sempre perfettibile, anche se è già lo strumento che più si avvicina alla perfezione perché parla una lingua desueta, inconsueta, è una lingua “altra”.»
«Il parabrezza impedisce agli insulti/di raggiungermi » (Autostorie). Quale rapporto tra auto e poesia?
Vivevo a Torino negli anni Settanta, tra Torino e Firenze. A Torino c’è la Fiat, la macchina. Studiavo filosofia per conto mio, la semiologia diventava una disciplina sempre più importante. Mi sono messo a lavorare sui segni. Il periodo sperimentale nasce negli anni Sessanta con la rivista “Pianura”. Lì scrissi le prime poesie di forma ermetica, costruite attraverso il linguaggio dell’automobile. Cercavo metaforicamente di restituire il linguaggio dell’automobile, di innervarlo nei versi poetici. Ad esempio usavo questa metafora, il tergicristallo diventava tergi orizzonte. Nella sezione Scenari, nella prima parte si sente ancora la classicità greca, è un registro volutamente alto. C’era una seconda parte staccata che riguardava il gergo teatrale, ho preso un diploma universitario in storia del teatro, ho scritto per vent’anni sulla Gazzetta del Popolo e sulla Stampa recensendo teatro e facendo interviste. Scrivevo sulle lavagne delle elementari le mie poesie sperimentali, sopra la lavagnetta c’era la fotografia con l’intervento, la segnaletica stradale riprodotta con striscia rossa o un tondo rosso, oppure mi ero fatto fare a Torino dei segnali nuovi che non esistevano. Raccontavano la storia della ragazza che legge Grand Hotel e poi si suicida dal ponte di Cuneo quando il ponte di Cuneo non aveva ancora la barriera protettiva. Albino Galvano, un pittore e critico famoso, volle che presentassi questo lavoro al Festival dei giovani dove c’erano tutti i maggiori pittori di quel periodo. Per dieci anni ho fatto poesia visiva ma il mio linguaggio poetico era difficile, astruso. Ho semplificato in una seconda parte che si chiama Scenari di congedo. Sono poesie molto più fruibili, fino alla terza parte dove queste poesie si capiscono, sono ironiche, riguardano la nostra giornata automobilistica. Finiamo per agire, per vivere anche se non siamo in macchina, come se ancora lo fossimo. Se uno sente parlare di albero e pensa dapprima all’albero motore della macchina, allora vuol dire che è proprio “fatto”.»
La moglie di Beppe, Elda ci porta un buon caffè per riscaldare l’animo, il passaggio al “tu” è naturale. Da dove nasce la tua passione per Elva? (“Monvisana”) Ti senti a tuo agio anche nel racconto lungo?
« Mi sono sempre interessato molto di arte, eravamo abituati ai pittori gotici, piuttosto rudimentali, come Pietro di Saluzzo. La prima volta che andai a Elva, vidi questi affreschi con un impianto straordinario.»
«Hans Clemer», interviene Elda.
«Allora si parlava del maestro d’Elva, l’attribuzione è diventata certa solo alla fine degli anni Settanta. Ad Elva mi capitò un fatto curioso, camminavo in mezzo alla polvere, non pioveva da molto tempo. Era mezzogiorno d’estate, e mi sembrava intollerabile vedere ad ogni passo la polvere che si sollevava e veniva verso il mio viso. Gli insetti sempre di più mi aggredivano, mi inseguivano. Ad un certo punto mi sono messo a correre, su questa dorsale sopra Elva. Arrivo a tre betulle incrociate con tre pietre disposte sotto, sembrava un’ara sacrificale, lì è comparso Pan. Avevo avuto il panico. Come ci insegnava Hillman,tante volte proviamo panico perché siamo invasi da Pan.»
«Lanugine di polvere, s’addensa/ sul sentiero…indicibile un’immagine t’appare…E’ lo Zenit. E’ Pan.» (“Elva”)
«Sono passato a questo registro di respiro più lungo, fino ad arrivare a quelle che ho chiamato, citando il Leopardi, “Fabulae”, una forma di favola, di racconto, sempre in versi che devono essere metrici, ritmici per essere versi. Sono una forma distesa così come c’era una volta il poema.»
A Roma, Michela Fede, una laureanda della facoltà di Lettere e filosofia dii Tor Vergata ha discusso la tesi “Il farsi della poesia. Motivi della poesia di Beppe Mariano”. Da quest’anno, sempre per Tor Vergata, Beppe Mariano terrà una rubrica di poesie per una rivista che esce sia on line che cartacea, a Roma e nelle università brasiliane collegate. Va spesso a Milano, per incontri con i poeti, sia alla Casa della poesia sia in alcune librerie milanesi. Presenta i suoi libri anche a Torino, al Circolo dei Lettori e presso l'Associazione "Poesia in progress" diretta da Vittorio Ferrero».
Nella foto Elda e Beppe Mariano
Piergiacomo Oderda