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Incontro pastorale giovanile e famigliare delle diverse diocesi piemontesi

09/04/2013 17:47

«Costruire percorsi comuni e guardare con occhi diversi lo stesso problema». Il vescovo Gallese, fresco di nomina in quei di Alessandria, sintetizza così l’obiettivo del comune incontro dei responsabili della pastorale giovanile e della pastorale famigliare delle diverse diocesi piemontesi. Interviene Raffaella Iafrate, collaboratrice al Centro Studi sulla famiglia dell’Università Cattolica, nota per il suo intervento al convegno ecclesiale di Verona. Tema: “Educazione agli affetti e costruzione dell’identità”.  Tre le questioni di partenza, la prima: «Perché parlare di educazione agli affetti? Nella società attuale ci troviamo davanti ad una cultura dominata da uno sbilanciamento a favore degli aspetti emozionali a discapito di quelli valoriali con un’affettività sradicata dall’ethos, da una prospettiva di senso». Gli affetti sembrano non aver bisogno di essere educati, anche la scuola «si occupa di educare cognitivamente e culturalmente, ma riserva poco spazio alle dimensioni affettive e relazionali». I ragazzi talvolta non sanno riconoscere le emozioni, sottovalutano le sofferenze e le buttano sul ridere, «è importante insegnare a “dare un nome” alle emozioni. Il mondo degli affetti chiede di essere formato e per così dire “raffinato” da un lavoro educativo». Va accompagnato sin dalla più tenera età. Il termine “emozione” deriva dal latino “ex-moveo”, uscire fuori, «un movimento da dentro a fuori; nell’emozione c’è una dimensione individuale, il bisogno da soddisfare». “Affetto” dal latino “affectus” richiama il passivo, “sono colpito”, «l’affetto è prima di tutto un incontro con l’altro», avere a che fare con l’altro è faticoso ma è un’opportunità. La dott.ssa Iafrate riporta la sua esperienza di psicologa, per fare una diagnosi non è sufficiente «il quadro della coppia che si osserva nel qui ed ora, abbiamo bisogno di andare alla radice, evincere, inferire qualcosa che lega i soggetti a livello più profondo, la loro storia». Caratteristica della relazione sono i tempi lunghi. L’emotività segue il principio del piacere, l’affetto è guidato da un’etica che può spingere anche a rinunciare al piacere immediato per il bene, il buono, il giusto. Seconda questione: «Perché connettere il tema dell’educazione agli affetti alla costruzione dell’identità?». «Se un’autentica vita affettiva è un’esperienza di relazione, realizza in sé la più profonda autenticità dell’essere umano. L’uomo è essenzialmente persona in relazione». «Il bambino è da subito, fin da quando è nel ventre materno, un soggetto capace di comunicazione e relazione». Il neonato è già “socialmente competente, «possiede una grande conoscenza delle regole del dialogo e dello scambio con gli altri». Nella psicopatologia, è il legame che cura, «la sua latitanza o la sua malignità causa dolori anche fisici. Dov’è finito l’uomo moderno con il suo mito della autorealizzazione? La persona non può neppure definirsi se non in relazione agli altri». Nell’esperienza umana il prototipo della qualità affettiva è il codice materno (“matris-munus”), soddisfa i bisogni primordiali, contiene dalle angosce; il prototipo della qualità etica è il codice paterno (“patris-munus”), è il padre che «guida, dà coraggio, apre al mondo». «Siamo frutto dell’incontro tra un materno e un paterno, tra un maschile e un femminile». L’ultima questione riguarda il mezzo privilegiato per l’educazione agli affetti (educare alla relazionalità del corpo) e il fine (educare alla generatività). «Il corpo è una parte ineludibile del nostro io, la nostra identità si sviluppa attraverso le trasformazioni che il nostro corpo subisce». Oggi il corpo è interpretato prevalentemente come «un bene dell’individuo da curare, di cui godere, da coccolare, da tenere in forma, da esibire (palestre, centri di benessere, beauty-farm): parlare di corpo in relazione significa invece introdurre l’idea di corpo inteso come “limite”, “confine”, con il quale continuamente fare i conti». Su questo limite si colloca la più straordinaria risorsa della persona, il corpo è mediatore tra me e l’altro, «il corpo ci parla del legame con l’altro, da subito» (quanto all’origine, «ha gli occhi della mamma») «e nel suo scopo (il corpo, nella sua differenziazione sessuale, può procreare». La sfida culturale di oggi sta nel recuperare il senso della vita umana, la funzione generativa, «uscire dalla narcisistica esclusiva preoccupazione di sé per prendersi cura delle nuove generazioni, non necessariamente nei termini della procreatività biologica». Prendersi in carico non solo la crescita dei propri figli ma anche degli altri giovani che appartengono alla medesima generazione, “far crescere i figli altrui come se fossero i propri figli”, ecco la generatività sociale. «Affettività e sessualità in prospettiva relazionale è condizione dell’autentica felicità». La dott.ssa Iafrate gioca ancora sull’etimologia di “felix” dal greco “fùo” (generare), «fecondo, fertile, felice hanno tutti la stessa radice». Mons. Brambilla prende spunto dalla separazione tra matrimonio/famiglia e società. «La vita civile fatica a tener conto dei legami sociali che la precedono e sospinge la coppia e la famiglia nel suo regime di “appartamento”». L’appartamento implica l’idea di una famiglia che vive “appartata”. Un’ulteriore separazione è quella tra «sentimento e dimensione etica, tra affetti/emozioni e scelta di vita». “Al cuor non si comanda…”, quando si chiede ai fidanzati se hanno un progetto, ci si rende conto che «è vissuto in maniera atmosferica, è uno “stare bene” insieme». Propone tre parole per riagganciare educazione affettiva e costruzione dell’identità: promessa, legge e cammino. «L’altro è dono promesso attraverso cui ciascuno costruisce il proprio io: il motore dell’incontro è dato proprio dal “sentire” l’altro come “promessa” per sé e dal sentirsi “riconosciuto” e mosso dall’altro». «La parola “promessa” significa un dono messo davanti a noi, in favore di noi e come appello per noi». «La legge è, per una coscienza sorpresa dalla presenza dell’altro, l’indicazione per costruire con lui un cammino di vita buona». La libertà è cammino, la nostra identità personale e relazionale «ci è data non nella forma di un prodotto confezionato ma dentro un cammino, una storia da costruire». Peccato l’esiguo spazio lasciato alle relazioni dei lavori di gruppo, ora toccherà agli uffici diocesani trarre spunto per impostare qualche sinergia tra pastorale giovanile e familiare.

Piergiacomo Oderda

 

 

 

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