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Guido Andruetto.Un libro parla di gente che ama la montagna

di Piergiacomo Oderda

Piero Roullet, nell’elegante salotto dell’albergo Bellevue a Cogne di cui è titolare, parte da lontano per presentare il libro di Guido Andruetto, “Fratelli e compagni di cordata. Alessio e Attilio Ollier. Storia di due guide alpine di Courmayeur” (Corbaccio, 2018). «Vorrei parlarvi di montagna. Questo libro parla di gente che ama la montagna. Fino a pochi secoli fa, la montagna era vista come luogo dove risiedevano gli dei. Incuteva un po’ di paura, era un luogo da rispettare. Dalla montagna nasce il sole, dalla montagna arrivano le tempeste, la tormenta, la neve. I Celti adoravano un dio rappresentato dalla cima delle montagne, illuminata dal sole. A fine Settecento il mondo è cambiato. Abbiamo cominciato ad avere interessi concreti, i montanari hanno scoperto che si potevano vendere i cristalli che si trovavano in montagna. La montagna è stata salita dai contrabbandieri che lucravano del fatto che certi beni da una parte o dall’altra della montagna valevano di più. Percorrevano quelle montagne con zaini fatti apposta, strane bricolle, molto leggere, che potevano portare quaranta chili di roba, la quantità che si poteva portare nella neve, sul ghiacciaio, nelle situazioni più terribili. Abbiamo avuto più di recente la guida, intesa come persona che accompagna altre persone in montagna, in sicurezza. Le guide sono nate a fine Ottocento, inizio Novecento» quando si è cominciato ad accompagnare scienziati, come Jacques Balmat a Chamonix, «uno studioso che voleva salire in alto per vedere cosa succedeva con i suoi esperimenti».  Le guide «fanno anche altre cose, i soccorsi. Vanno a recuperare quelli che cadono in montagna. Anche le guide possono incappare in una caduta di sassi, in un seracco che si rompe sotto i piedi. Quando parliamo di guide parliamo di persone preparate, capaci di cose inenarrabili. Si sta aprendo un genere letterario che può essere espresso solo attraverso la scrittura. E’ un’emozione forte di vita, di morte, di pericolo, di angoscia, di terrore, l’emozione di sentire l’uomo come un essere piccolissimo di fronte al tempo che cambia». Roullet rievoca la storia del Frênei, 9 luglio 1961. Walter Bonatti ed altre sei persone cercano di fare una via, «pochi di questi, soltanto tre si salvano, erano sette guide eccezionali, le migliori guide della Val d’Aosta, di Chamonix. Attilio Ollier aveva la mamma che teneva quel rifugio in cui erano arrivati tutti i soccorritori, sapendo Bonatti in difficoltà, che stava rischiando la morte. Col tempo brutto anche oggi non si alzano gli elicotteri, l’unico modo era quello di avvicinarsi a piedi. Dallo Skyway, sulla sinistra vedete terribili pareti rocciose, le Dames Anglaises, per esempio. Poi c’è questa Noire del Frênei dove è avvenuta questa disgrazia».

«Questo è un libro di montagna, di due ragazzini valdostani come tanti che da piccoli fanno i pastori, vanno ad aiutare la mamma in rifugio, si avvicinano alla montagna in quel modo per cui diventano grandi alpinisti». Cita la prefazione di Messner che «in Nepal ha vissuto la morte di suo fratello, immaginate cosa vuol dire presentarsi in famiglia dalla mamma che ti guarda ma  non parla, si chiede se è stato fatto tutto quello che era possibile». Ruollet non concorda con l’affermazione dell’altoatesino secondo cui oggi l’alpinismo è diverso. «Oggi ci sono tecniche migliori, scarponi dove i piedi non congelano, oggi si può salire su una parete verticale, un tetto di ghiaccio. Oggi è migliorata la tecnica, il soccorso si può fare con l’elicottero sempre che il tempo sia bello ma l’amore, l’emozione per la montagna, la sfida, la voglia di percorrere certe vie difficilissime è assolutamente intatta, il pericolo è sempre lo stesso».

«La storia del libro avviene in un raggio piccolissimo, il rifugio Monzino, poco sotto la capanna Gamba, in un posto particolare a 2600 m di altitudine, circondato da pinnacoli spaventosi anche solo a vedersi. Attilio ha sempre avuto una memoria fotografica sbalorditiva, ancora oggi si ricorda ogni singolo passaggio delle sue salite. La cresta Sud della Aguille noir de Peuterey  ce l’ha stampata in mente, l’ha scalata un’infinità di volte. Quando racconta delle sue salite non smette mai di mettere in evidenza il panorama di cui si può godere, se cita un altopiano suggerisce di andarci nei mesi quando i prati sono in piena fioritura. Una delle emozioni più grandi che hanno avuto Alessio e Attilio Ollier fu la Poire, una roccia a forma di pera, dove sono partiti con Franco Salluard; riuscirono nell’impresa dove Bonatti aveva fallito, la Poire in invernale».

Un salto nell’attualità. «Quest’inverno è diventato di moda scalare le cascate di ghiaccio con la luna piena. Ogni volta che c’è la luna piena arrivano anche dall’estero. Si riesce a salire ma poi bisogna scendere, con la neve si seguono le piste, senza neve la gente non riusciva a scendere. Tre, quattro soccorsi di notte, non ci sono elicotteri che possono avvicinarsi. Passare le notte a cercare di salvarli, val la pena di rischiare la vita, non poter lavorare per questi pazzi incoscienti?».

Guido Andruetto ricorda che «una delle cose più belle per Attilio Ollier è poter parlare del fratello Alessio che non c’è più; otto anni più grande, l’ha introdotto all’alpinismo, al mestiere di guida. Da bambino quando portava le mucche al pascolo al Checrouit vedeva le luci del rifugio Torino, non aveva mai sentito quella spinta, quella scintilla. Alessio era andato molto deciso sul mestiere di guida alpina, poi aveva un po’ trascinato suo fratello trasmettendogli tutto quello che sapeva. L’uscita di questo libro l’ha destabilizzato, perché ti ritrovi in qualche modo ad essere popolare, la tua storia diventa accessibile a tutti. Se sei stato sempre schivo, se sei sempre stato un po’ nelle retrovie, ti fa effetto. Attilio ricorda tutto perfettamente, non a caso tante guide di Courmayeur quando hanno bisogno di qualcosa su determinati passaggi, vanno a trovarlo in falegnameria e gli chiedono dei consigli perché sanno che quell’esatto punto lui se lo ricorda alla perfezione. La prima invernale della Poire, ambita da Bonatti, l’abbiamo ricostruita tutta da quando partirono dal rifugio a Torino a quando arrivarono a Chamonix, celebrati all’Hôtel Suisse dalla stampa, dai giornalisti, dalle guide. Con Attilio siamo saliti al rifugio Monzino. Lungo tutto il percorso mi faceva vedere le piante di genziana, la rosa canina, tutti gli angoli, gli anfratti avevano un nome in patois. Arrivati al Monzino mi aveva mostrato poco sopra i ruderi della Capanna Gamba, “qui vivevano mio papà e mia mamma, stavano qui tutta la stagione dell’estate in un luogo impervio e avevano una stufa, un letto, una cucina”. Si è commosso, “questo dovrebbe essere un monumento!”». Guido Andruetto riporta una considerazione di Steve House citata in esergo del libro: «in molte città, in molti paesi dell’arco alpino, nella piazza dove c’è la chiesa, di fronte c’è la società delle guide alpine. Ci sarà un motivo, c’è una relazione, sono in qualche modo due punti di riferimento, pur nella loro diversità ciò spiega molto sul valore della guida alpina, sul senso di quel mestiere che comporta sacrifici enormi». Ricorda ancora della tragedia del pilone centrale del Frênei il recupero di Antoine Vieille, «alpinista straordinario francese che era un gigante, pesava più di novanta chili, non c’erano barelle, venne legato ad una pertica e venne portato giù fino a Courmayeur. Questo lo fece Attilio Ollier insieme a Gex. C’è questa foto bellissima che mi ha dato Attilio del papà di Vieille, un ammiraglio della marina francese. Un anno dopo la tragedia ritornò alla capanna Gamba dove c’era sempre il papà di Attilio e Alessio e si fece accompagnare fino al punto dove avevano recuperato suo figlio. Gli mandò questa foto con il ringraziamento per le guide di Courmayeur, per quello che avevano fatto per i soccorsi e per il recupero dei corpi».

Piergiacomo Oderda

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