Facebook Twitter Youtube Feed RSS

Fondazione Cesare Pavese accoglie i visitatori a Santo Stefano Belbo (CN)

27/08/2020 18:49

di Piergiacomo Oderda

A settant’anni dalla morte di Cesare Pavese, avvenuta il 27 agosto del 1950 nella camera 43 dell’hotel Roma a Torino, pur nei minimi ranghi ammessi dall’emergenza Covid, la Fondazione Cesare Pavese accoglie i visitatori in piazza Confraternita a Santo Stefano Belbo (CN). La visita parte dalla chiesa di San Giacomo e Cristoforo dove Pavese, nato il 9 settembre 1908, è stato battezzato. Sorta nel Settecento, una linea di borchie metalliche sottolinea l’ampliamento avvenuto nell’Ottocento. Eretta la nuova parrocchiale (1920), viene sconsacrata ed è stata ristrutturata dopo i danni inferti dall’alluvione del 1994. La sede precedente della Fondazione era stata pensata negli anni Settanta nei pressi del Tanaro, con l’alluvione libri e documenti preziosi finiscono nel fango, grazie all’appello a fondi privati, il Comitato scientifico decide di spostare la sede nel centro storico. Una torretta per l’ingresso consente l’accesso alla biblioteca dei ragazzi e degli adulti, situate in due piani differenti dell’ex casa di riposo. Si è persino realizzata una foresteria per accogliere studiosi o stagisti. La chiesa è l’auditorium della Fondazione mentre nelle navate laterali si allestiscono mostre, attualmente vi campeggiano istantanee dei luoghi pavesiani. Il pittore milanese Ernesto Treccani ha dipinto nel 1962 cinque tele ispirate a “La luna e i falò” (1949). Tra i soggetti raffigurati spiccano il treno di Canelli, il personaggio di Cinto, Santina e le sorelle Silvia e Irene. Sono presenti ancora un paio di testimonianze della mostra avvenuta prima del “lockdown” dell’artista aretino Bertolini, con la curatela di Laurana Lajolo, figlia dello scrittore che ha redatto la prima biografia nel 1960 (Davide Lajolo, “Il «vizio assurdo»”). Si passa al “chiostro”, un cortile porticato che conserva l’opera di un artista locale che ha trasformato una botte in una balena per ricordare la traduzione ad opera di Pavese di “Moby Dick” di Melville (1932). Un pannello riporta alcune foto di Pinolo Scaglione, grande amico dello scrittore, di otto anni più grande (nato nel 1900). Le loro case non sono lontane, quella di Nuto è al civico 24, la strada ora si chiama via Pavese; la sorella maggiore, Vittoria, svolge le mansioni di cameriera a Torino in casa Pavese. Pinolo segue le scuole a Torino, poi torna in paese e a diciassette anni viene richiamato alle armi per la Grande guerra. Lavora nella falegnameria di famiglia, realizza botti e bigonce insieme al fratello Candido, valente liutaio, capace di realizzare chitarre, violini, contrabbassi. Pinolo suona il clarino e riveste il ruolo anche di direttore della banda musicale del paese. Dopo il 1950, mancato Pavese, ne rappresenta una memoria viva per chi giunge a Santo Stefano per cercare notizie sull’autore. Al primo piano della Fondazione Pavese, entriamo in una sala adibita a cineforum, alle pareti sono allineati gli schizzi preparatori delle tele di Treccani. Nelle vetrine si scorgono le opere di Pavese nelle traduzioni in basco, polacco, coreano, russo, nelle lingue slave. Quattro libri aperti consentono di “leggere Pavese tra le righe” (commenti al testo ad opera del direttore della Fondazione, Pierluigi Vaccaneo). Un profilo dell’Italia in legno funge da sfondo al primo contributo tecnologico, un video che ricostruisce l’attività editoriale di Pavese con Einaudi. Suoi collaboratori sono stati Leone Ginzburg, Massimo Mila, accomunati dall’aver seguito le lezioni al Liceo D’Azeglio del professor Augusto Monti, antifascista amico di Gobetti. Si accenna a Pavese come lavoratore indefesso, anche il giorno dopo il bombardamento che colpisce la sede della casa editrice, si siede ugualmente alla scrivania, una volta scansati i calcinacci. Su un paio di sedie antiche è posizionata la copia di “Dialoghi con Leucò” (1947), opera basata sull’amore per il mito che lo spinse a fondare la collana viola dedicata a studi religiosi ed etnologici insieme a Ernesto De Martino. La copia riporta sul frontespizio le ultime parole che Pavese scrive prima del suicidio, una richiesta di perdono e l’invito a “non fare pettegolezzi”. La sorella, Maria Sini, la regala nel trentennale della morte (1980) all’ex direttore del Centro Studi. Un’altra stanza presenta una realizzazione scultorea dedicata alla poesia “I mari del Sud” (“Lavorare stanca”, 1936). Alcune fotografie realizzate da Mauro Dondero permettono di ricordare i luoghi di vita, la casa natale, il liceo D’Azeglio, la casa di Torino in via Lamarmora 35 dove Pavese vive con la sorella e il cognato, il Caffè Ligure, il Caffè Elena di piazza Vittorio a Torino, il laboratorio di falegnameria di Pinolo Scaglione, il ponte Milvio a Roma, dove lo scrittore lavora per alcuni anni. Altre foto ritraggono amici conosciuti a Brancaleone Calabro quando trascorre dieci mesi di confino tra il 1935 e il 1936, la villa a Serralunga di Crea dove si ritira per più di un anno quando l’attività della casa editrice viene sospesa e in cui si ambienta il romanzo “La casa in collina” (1948). Altre foto relative alle opere permettono di conoscere le cascine de “La luna e i falò”, la Mora, la Gaminella (Robini), la palazzina del Nido, la stazione di Canelli. In una vetrina si conserva la copia del romanzo donata a Pinolo con la dedica in cui si chiede venia per le “invenzioni”, si conserva anche un ritratto dell’amico dello scrittore schizzato da Treccani. Si possono ammirare le prime edizione dei libri, alcune letture di Pavese con tanto di annotazioni, le prime copie delle traduzioni, come una copia di “Moby Dick” con il disegno in copertina dell’amico Mario Sturani. Pavese ha approfondito l’inglese da autodidatta cercando libri a Roma o facendoseli inviare da un amico violinista che gli dava una mano per quelle forme gergali che non riusciva a trovare nei vocabolari. Una sala presente una bigoncia (vi si sistemavano i grappoli prima della pigiatura) dove è stato ricostruito il paesaggio di Santo Stefano, un secondo video presenta alcuni brani di Pavese legati ai luoghi presentati nel plastico.

Ci spostiamo alla casa natale di Pavese, venduta nel 1918 dopo la morte del padre. L’allestimento del museo è stato curato dal CE.PA.M. (Centro Pavesiano Museo Casa Natale) allora diretto da Luigi Gatti, docente alle scuole medie. Si fa promotore di un Premio Pavese per narrativa e saggistica a cui si aggiungono nel 1987 le arti figurative (pittura, scultura). Una foto ricorda la prima commemorazione dello scrittore avvenuta nel 1958 con la presenza di Carlo Levi, Giulio Einaudi e Italo Calvino che considerava Pavese il suo maestro. Con la gestione del Premio Pavese a cura della Fondazione si sono aggiunte le sezioni dedicate all’editoria e alla traduzione. Lungo le scale che portano al primo piano si ammira la foto di Constance Dowling, un’attrice americana di cui Pavese si era invaghito, una foto con Elio Vittorini, il primo a redarre un’antologia di letteratura americana a cui Pavese contribuisce con uno scritto su Sinclair Lewis. Immagini del Po e del Belbo riflettono una dimensione fortemente amata dallo scrittore che andava al fiume per remare, pescare, prendere il sole. Nella camera da letto si notano le foto dei genitori e un’immagine di Pavese a sei anni quando la famiglia rimane tutto l’anno a Santo Stefano Belbo a causa della malattia della sorella. Nella stanza accanto, sono appese fotocopie dei manoscritti (gli originali sono gelosamente conservati all’Università dalla prof.ssa Masoero). Una foto attesta una gita alle fonti del Clitunno con l’amico Carlo Predella che si suicida a vent’anni così come aveva fatto un altro compagno di Liceo, Elico Varaldi. Anche il diario pubblicato postumo “Il mestiere di vivere” (1952) testimonia come l’idea del suicidio accompagni le traversie di Pavese, così come ricorda anche la biografia redatta da Lajolo: difficoltà di vivere, depressione, delusioni amorose, non aver costruito una famiglia. In una sala dove si premiavano i vincitori del premio Pavese, giganteggia una pittura che rappresenta una sorta di “bignami” del romanzo “La luna e i falò” come la Locanda dell’Angelo, ora Bar Sport, e un profilo di contrabbasso che ricorda i manufatti di Candido Scaglione. In chiusura, vediamo una foto di Pavese, Ginzburg, Frassinelli e Antonicelli ritratti a Castino, le foto delle donne che hanno segnato la vita di Pavese, Battistina Pizzardo (Pavese viene incriminato per averle concesso il recapito per ricevere lettere politiche), Fernanda Pivano traduttrice nel ’43 dell’”Antologia di Spoon River” di E. Lee Masters (Pavese le fa due richieste di matrimonio) e Bianca Garufi, ispiratrice di “Dialoghi con Leucò” con cui scrive a quattro mani il romanzo incompiuto “Fuoco grande” (1959). Toccante la foto con Maria Bellonci in occasione dell’assegnazione del Premio Strega per “La Bella estate” (1949) e la lettera di ammirazione di Piero Calamandrei con relativa risposta inviata il 21 agosto del 1950 (“Traversavo e traverso un periodo tristissimo, e sia pure soltanto un sollievo come quello di sentire che non si è lavorato invano e che i migliori d’Italia se ne sono accorti, è bastato a darmi respiro”).

Piergiacomo Oderda

Commenti