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Il segreto per un buon sceneggiatore. Vanzina ad Ostuni

08/09/2019 14:06
di Piergiacomo Oderda 
 
Il manifesto del film “Via Montenapoleone” (1986) campeggia sullo schermo posizionato dietro Enrico Vanzina, intervistato ad Ostuni (BR) da Michele Masneri (“Il Foglio”). La location è Villa Velga che per il noto sceneggiatore  evoca l'atmosfera de “Il Gattopardo”. L'architetto Eliana Pecere, assessore all'urbanistica della “Città bianca”, porta i saluti dell'amministrazione locale e tesse le lodi di «questa manifestazione raffinata», il Festival dei sensi, «incontri con suggestivi spunti di riflessione». Vanzina elenca le «tantissime ragioni» che lo legano alla Puglia. «Uno dei primi attori con cui ho cominciato è stato Diego Abatantuono». Da un amico pugliese, Felice Tricarico, «un simpatico passaguai, un playboy», i fratelli Vanzina mutuano l'idea del personaggio di Felice, onnipresente nei loro film. Vanzina ricorda ancora tra gli amici Nino Rota, direttore del conservatorio di Bari e fondatore di quello di Monopoli, gli attori Emilio Solfrizzi, Lino Banfi e Michele Placido. Masneri definisce Vanzina «uno dei più grandi raccontatori di storie», ha una rubrica settimanale sul “Messaggero” dal titolo “Che ci faccio io qui”, mutuato da un libro di Bruce Chatwin (“What Am I Doing Here”, 1988).
Enrico Vanzina racconta un episodio legato al fratello Carlo (morto l'anno scorso), «stava male, aveva il cancro ma veniva in ufficio tutte le mattine». «Era un momento di grande silenzio», dovevano scrivere una scena difficile di un film. Era dimagrito, aveva i capelli imbiancati, «lottava in silenzio con la forza di un leone. Si alzò, venne verso di me, mi guardò negli occhi, mi sfiorò con la mano i capelli» e disse: «Stai tranquillo, ho avuto una vita meravigliosa». L'avventura dei fratelli Vanzina «comincia tanti anni fa sul transatlantico che viaggiava dall'Argentina verso l'Italia». Il nonno, Alberto Vanzina, era un inviato del Corriere della Sera; su quella nava viaggiava Giulia Boggio, una contessa romana con il vizio di andare in giro per casinò. Si innamorano, nasce Steno (il padre di Enrico e Carlo), e si stabiliscono ad Arona, nella città di origine del papà. La nonna non voleva starsene là e alla morte del nonno prende Steno e lo porta a Roma. Conducono «una vita di grandi stenti, in alberghetti. Ma papà era un genio, prende in pugno la situazione, è il più bravo al liceo Mamiani. Si iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia, frequenta l'Accademia di Belle Arti come scenografo, diviene capo redattore della rivista satirica Marc'Aurelio, fa l'aiuto regista di Mario Mattioli». Diventa «lo sceneggiatore numero uno!». Lavora con Renato Castellani, Mario Camerini, Alessandro Blasetti. Nel primo dopoguerra incontra Mario Monicelli, suo compagno di lavoro per molti film. «Durante la guerra lascia Roma a piedi con Soldati e Longanesi», vivono a Napoli, finanziati dall'amico Dino De Laurentiis. Vanzina ricorda i grandissimi successi di “Totò cerca casa” (1949), “Guardie e ladri” (1951) con Totò e Fabrizi. In “Totò e le donne”(1952), mancava un attore di un anno e prendono Carlo, «aveva i cromosomi del cinema» sostiene Enrico. Steno introduce al cinema Alberto Sordi (“Un giorno in pretura”, 1953; “Un americano a Roma”, 1954). Racconta un episodio avvenuto durante la lavorazione di “Mio figlio Nerone” (1956) con Sordi, De Sica, la Swanson nel ruolo di Agrippina mentre la Bardot rivestiva i panni di Poppea. Ricevuto in dono la sera di Natale elmo, corazza, daga dicono a Carlo di appena tre anni di ringraziare la Swanson. “Voglio la Bardot!”, replica il piccolo.
Carlo Vanzina è stato aiuto regista di Mario Monicelli in “Armata Brancaleone” (1966), “Amici miei” (1975). Enrico, invece, voleva fare lo scrittore, ha realizzato cento film di cui sessantuno col fratello. Ma è “Mio fratello Carlo”, il libro che esce il 9 settembre, «la cosa più bella che ho fatto nella mia vita». Ricostruisce la loro relazione «da quando mi ha detto che aveva il cancro. L'ho scritto in “trance”, come se mi fosse caduto dal cielo».
Vanzina parla del cinema italiano come di «un gruppo di persone che si volevano bene, nel dopoguerra si sono rimboccati le maniche e hanno tirato su questo Paese». Racconta ancora un aneddoto su Vittorio De Sica che condivideva con la nonna di Enrico la passione per il gioco. Aristotele Onassis aveva comperato una quota del casinò di Montecarlo. Andò a ricevere De Sica e lo accolse così: “Maestro, che piacere! Grazie a lei abbiamo fatto quell'aiuola!”. “Quando non ci sarò più, tutto questo sarà tuo!”, fu la serafica replica del noto attore.
Totò ovvero il principe De Curtis, viveva proprio come un principe. «Andava in giro per i Pairoli in una Cadillac con le tendine». Quando andava a vedere il “giornaliero” delle riprese, «si ammazzava dalle risate, si esilarava a guardarsi». «Si guardava con sospetto al genere della commedia ma è stato il genere più importante» sentenzia Vanzina, propone di dedicare «un'ora la settimana a proiettare a scuola un film della commedia italiana». Su quattrocento studenti di Bari, uno solo ha alzato la mano quando, durante una retrospettiva, ha chiesto chi conoscesse Gian Maria Volonté. Fra i tanti personaggi amati da Vanzina, cita Paolo Panelli, il “re” dei ritrovi di attori a Castiglioncello, dove si esibiva in scenette e Mastroianni gli faceva da spalla. Vanzina racconta ancora di Renato Pozzetto fremente nell'occasione di conoscere Alberto Sordi. Questi lo salutò chiedendogli: “Ciao caro, ma tu chi sei, Cochi o Renato?”. Andy Warhol in una cena organizzata da Susanna Agnelli chiese a Sordi come riuscisse a passare da un personaggio all'altro. Rispose di indossare il cappello da commissario, da postino, da vigile ma “sono sempre io!”. Eppure erano gli anni Settanta e negli Actors Studio di Los Angeles, Paul Newman, Marlon Brando, Meryl Streep imparavano ad immedesimarsi nei personaggi. Ne “Il paradosso dell'attore” (1830), Diderot sosteneva che più si è distanti dal personaggio meglio lo si fa in quanto lo si critica. Un altro aneddoto su Sordi è relativo al suo presentarsi al Teatro Petruzzelli con un braccio al collo. Si girava una scena complicatissima di “Polvere di stelle” (1973), si scopre la ragione dell'accorgimento di Sordi: «non potevo dare la mano a 'sti zozzi con la mano sudata!».
Quando Vanzina comunicò la sua voglia di fare lo scrittore da grande, Flaiano, il primo a vincere il premio Strega (1947), gli disse di fargli una domanda. “A cosa serve scrivere?”, chiese Enrico. «Flaiano si levò gli occhiali, mi fulminò con lo sguardo e disse “scrivere serve a sconfiggere la morte!».
Masneri accenna a “Sapore di mare” (1983), «la nostra estate in Versilia, un'estate adolescenziale, semplice, un romanzo di formazione. Scopri amori, tradimenti, il tempo che passa, qualcosa che ha inciso nella tua vita». Ricorda ancora con nostalgia Steno che li portava al Louvre, al Prado, li obbligava a leggere libri. «Se non sai la storia della pittura, la storia della musica, se non hai letto libri» non puoi scrivere sceneggiature. «Per scrivere Totò devi aver letto Proust». Il segreto per un buon sceneggiatore è «andare in giro, vivere la vita degli altri, ascoltarli». «Mi alzo presto, ascolto il macellaio, il fruttivendolo, cerco di captare» rispondeva Alberto Lattuada in un'intervista radiofonica. «Non avere la sensazione di essere superiori, capire le ragioni e mettersi nei panni» del personaggio che si vuole raccontare, aggiunge Vanzina.
 
Piergiacomo Oderda
 

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